Cosa mi fa ridere?

Se qualcuno mi chiedesse cosa mi fa ridere, la risposta non sarebbe immediata.
La comicità, in generale, è un concetto complessissimo.
E credo di non essere il primo a dirlo.
Parlare di comicità vuol dire parlare un po’ di tutto e un po’ di nulla perché è un campo enormemente vasto con una quantità gigantesca di variabili. Un fragilissimo castello di carte.
Un oceano immenso dove è facile smarrirsi e dove non esistono regole.

Possiamo approfondire il processo fisico che ci fa esplodere in una risata, possiamo studiare il tempo ritmico di una battuta di Ricky Gervais o un lazzo di Arlecchino, imparare a memoria i tempi comici di Troisi, capire perché la sceneggiatura di Arsenico e vecchi merletti è così divertente e Cary Grant è meravigliosamente buffo, ma il motivo per cui non ridiamo tutti per le stesse cose è ancora un mistero.
La comicità non è matematica, per me. E’ qualcosa di mistico e di profondamente tragico che può toccare o no le nostre sensibilità. Infatti credo che i grandi comici siano persone che vivono pericolosamente in connessione con un’altra realtà.
È per questo che bisogna stare alla larga dai laboratori di comicità.
Non si può insegnare ad essere comici, la comicità non è un talento, ma un aspetto più o meno sviluppato del nostro carattere. Qualcosa di molto profondo.
Ed è un discorso che riguarda sia gli autori che gli attori.

Ma a parte questo, che significa essere comici?
Far ridere gli altri. Certo. Ma quando ho scoperto che alla mia ragazza, persona acuta, sensibile e intelligente per carità, non fa ridere Totò, in quel momento mi sono crollate parecchie certezze, perché reputo Totò il più grande di tutti della storia di sempre.
E allo stesso tempo sono molto innamorato della mia ragazza.

Allora visto che è tutto così poco chiaro nella mia testa (ma anche nella mia vita), per non andare in crisi, ho deciso di darmi io delle piccole linee guida.
Prima di tutto, è bene dire che i gusti della vita di un individuo cambiano con il passare degli anni e, quindi, anche quello che fa ridere. Una cosa che ci fa ridere da piccoli non è detto ci faccia ridere da grandi. Poi, bisogna sempre considerare che ogni epoca storica ha la sua comicità.
In altre parole, la comicità non è per sempre.
Ovviamente su quest’ultima cosa, qualcuno potrebbe ribattere. Io, allora, lo pregherei di organizzare quanto prima una proiezione di The General di Buster Keaton (filmone!) in una sala bella piena di ragazzi e vedere che succede.
Parlando dell’epoca che stiamo attraversando, appunto, non possiamo non considerare l’influenza che hanno i social sui nostri cervelli. Negli anni ‘20 un giovane attore comico doveva misurarsi con il cabaret in Germania, con il varietà e l’avanspettacolo in Italia. Oggi, invece, i social costituiscono un importante banco di prova. Il che è assurdo visto che considero questo un lavoro artigianale, che si fa con il tempo, l’esperienza e la conoscenza.
Ma va bene, lo accetto. Anche perché pure io sono dipendente dai meme e dai vari trend.
Meccanismi comici velocissimi che si esauriscono in breve tempo, che vanno subito cavalcati e devono essere allo stesso tempo originali, ma restando banali (un concetto per me incomprensibile ma evidentemente funziona).
Ribadisco in quanto boomer: mi sento un pesce fuor d’acqua rispetto a tutto questo. Infatti provo rabbia, a volte, nei confronti di questi influencer, umoristi del web, spero di vederli fallire sul palco, spero di vederli recitare male in un brutto film. Ma qualche volta fortunatamente vengo smentito e allora mi tranquillizzo e penso che questo mondo, in fondo in fondo, non fa così schifo. Anche se, qui lo dico, aspetto tutta questa gente al varco.
E si guardassero tutti i film di Woody Allen. E ovviamente, Jim Carrey (sempre e comunque il mio attore preferito).

Quindi, tornando a bomba alla domanda di sopra, cos’è che mi fa ridere?

Oltre tutti i comici che ho citato precedentemente, oggi rido molto quando c’è il disagio.
Un battuta imbarazzante. Una gag fuori posto. Una cosa che non va detta in un certo momento, ma la si dice lo stesso. Adoro creare il gelo nel pubblico. Mi fa troppo ridere, da morire.
Per me la comicità è la pura irriverenza-no sense.
Attenzione, non parlo del politically correct (su quello bisogna aprire un capitolo a parte), parlo del generare confusione e scompiglio. Amo quando faccio il mio monologo 1e95 e non ride nessuno. Si crea una tensione divertentissima.

Oppure per esempio nel mio ultimo spettacolo, Paolo Sorrentino vieni devo dirti una cosa, ad un certo punto parte un film drammaticissimo su Sergio Endrigo che dura più di 10 minuti e il pubblico non capisce più cosa sta vedendo. Un po’ come quando Andy Kauffman leggeva Il Grande Gatsby per intero durante i suoi show oppure quando Benigni si avventò sulla Carrà in diretta oppure quando i Monty Python fecero cadere le ceneri di Graham Chapman in una trasmissione oppure quando Walter Chiari faceva durare una barzelletta più di un’ora stremando il pubblico oppure quando Jannacci durante i concerti non si faceva capire o quando Antonio Rezza non torna sul palco per dieci minuti.

Perché chi fa il comico deve essere ribelle, deve essere sfrontato, senza pudore, avere il coraggio di osare, di disturbare, di dare fastidio, di essere impertinente e dispettoso e riuscire a non piacere sempre a tutti. Bisogna nutrire una sana cattiveria nei confronti del pubblico in sala e sperare che prima o poi qualcuno ti prenda a cazzotti. Bisogna riuscire a essere insostenibili ma con classe e intelligenza, bisogna risultare antipatici rimanendo simpatici. Bisogna sempre essere sul filo del rasoio.

I comici hanno il dovere di essere cosi.

Insomma, bisogna essere un po’ cretini, dai.

 Giuseppe Scoditti

Fotografia di Francois Duhamel / Netflix